chi rimette tutto a posto?

Bibbia e giornale: accoppiata strana, quasi un azzardo, probabilmente controproducente vista l’aria che tira, il percepito nei confronti della Chiesa.

Come prete che fa comunicazione, poi son decisamente in mezzo al guado.

Quello che scrivo o che dico, non è sicuramente vangelo, soprattutto non vuole essere qualcosa che tappa a la bocca a qualcuno, in nome di essere “più in alto” degli altri.

Alzare gli occhi da quello che si sta leggendo per guardare fuori: tanti ci vedono una distrazione, un perdere di vista quanto si ritiene prioritario…

Io lo vedo come un allargare gli orizzonti e rendersi permeabili. Apparentemente precari o fragili, darsi tempi, strumenti e motivazioni giusti, ti porta a dialogare con chiunque. Sono molto convinto di questo.

In positivo, nei miei giri in bici, sottolineo spesso che è “tutto un altro andare”. Amo ripetere che è il mezzo giusto “per indossare” la natura, l’ambiente che attraversiamo (senza dimenticare che è lui ad esserci, da prima di noi).

Con molta più fatica lo sto sperimentando in questi giorni di sofferenza, di odio e distruzione: anche leggendo il vangelo, i miei occhi si alzano a scrutare spesso fuori: l’orizzonte fisico o mediatico. E anche l’orecchio è ormai messo a dura prova da notizie, commenti… e armi che non sento fisicamente, ma che proposte in tutti i modi, ho comunque negli orecchi e soprattutto nel cuore.

In parrocchia, con le famiglie… è impossibile non parlarne, anche se vorrei che questi giorni finissero subito (insieme alla coda di una pandemia che ci ha sfibrati). 

Oltre che in mezzo a venti di guerra (e questo è gravissimo, senza se e senza ma), siamo in mezzo anche ad una comunicazione che rischia di fare tanto male. Può sembrare un problema secondario, ma ne sento tutto il peso, davvero. 

Ho sentito il bisogno di fare ordine prima di tutto tra le mie idee, perché, al di là delle buone intenzioni, è importantissimo avere un metodo e uno stile per comunicare e puntare soltanto sulle proprie percezioni, si risolve normalmente nel più grave degli errori: dico o faccio molto, ma non è detto che comunichi veramente.

Ho alzato gli occhi “dalle mie cose” per pormi un po’ di interrogativi come comunicatori: non ho le risposte… anzi, sono decisamente stanco di chi ha risposte per tutto, spesso non ascoltando granché le domande che vengono poste

Ci sto lavorando e studiando sopra. 

Ho provato ad elencare errori o scappatoie mentali, in cui sento davvero il rischio di cadere, e soluzioni con le quali provare ad affrontare la comunicazione durante l’emergenza.

  • ·Qualunque cosa accada, se viene percepita come una diretta responsabilità di una singola persona, ha bisogno di uno studio e di una valutazione più attenta
  • In situazioni di emergenza, questa distorsione nella percezione si moltiplica. Si può provare a gestire questa dinamica distorta, riducendone i rischi e trasformandola in una opportunità.
  • Questa dinamica non si può invertire con la comunicazione. È impossibile provare a comunicare con efficacia (o sostituire addirittura) le reali competenze tecniche o giuridiche degli attori in campo. Più si è trasparenti e credibili, meglio è. 

Tre questioni, fortemente intrecciate, rendono il quadro assai più complesso rispetto al passato:

  • la fine di gerarchie e mediazioni;
  • la moltiplicazione dei media,
  • l’eccesso di informazioni.

Quelli che un tempo ispiravano i comportamenti delle persone (le famose “agenzie educative” famiglia, scuola, chiesa, politica del territorio, sono oggi i mittenti più screditati in assoluto. La gente si fida più delle persone presenti all’interno delle proprie cerchie relazionali, reali o digitali, rispetto ai politici e ai media. 

Prima dei social media. La comunicazione politica e istituzionale è un rapporto a due: media - politica. I cittadini sono fruitori del prodotto di quel dialogo. I media sono ‘gatekeeper’: decidono cosa è notizia e cosa no. Ciò che non passa dal filtro dei media è invisibile.

Oggi. Ogni utente è un vettore di comunicazione. Attraverso i social può essere informato e informare a sua volta. Le fonti si frammentano. Il filtro dei media tradizionali diminuisce. La comunicazione politica può disintermediare, cioè di fare a meno dei media per comunicare con i cittadini.

Va preso atto che i tempi cambiano. Non ha senso ed è controproducente “processare” il tempo che passa: meglio prima… meglio adesso… Oltre ad essere illusorio, è fuorviante: crea mitizzazione o chiusure, che distorcono l’approccio alla realtà. 

Siamo in piena infodemia: una circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. L’infodemia è inoltre favorita da tre conflitti: tra istituzioni, tra esperti, tra media        

Evitare scaricabarile (ma anche assolutizzazioni mascherate).          

È importante chiarire le competenze e questo dev’essere fatto in un’ottica progettuale e relazionale: chi fa cosa… è importantissimo, ma lo è altrettanto arrivare ad un obiettivo, a prescindere se sarò io a farlo. La sussidiarietà e la complementarietà sono davvero vitali.

Chi si limita a dire “non è mia competenza, non è mia responsabilità”, anche dicendo una verità, non contribuisce però a scelte comuni, dando l’impressione (anche ammettendo i propri limiti) che solo lui può fare (senza di lui si è perduti): viene percepito come una figura debole, nella quale non si può confidare, inadatta a gestire la situazione di crisi. Un atteggiamento deleterio per la costruzione o il consolidamento del rapporto tra persone. 

Evitare l’effetto prima donna  

Il comportamento opposto allo scaricabarile è quello della “prima donna”. Ritagliarsi un ruolo di eccessivo protagonismo nella gestione della crisi, accentrare su di sé tutta la comunicazione, presidiare giorno e notte social e media tradizionali, finisce per drogare la figura la propria figura ben al di là del proprio ruolo.

Questo atteggiamento giustifica, invece che disinnescarla, la sindrome della “colpa di questo o di quello” e può quindi portare ad effetti disastrosi, soprattutto in casi delicati.

Provare a rispondere al desiderio più diffuso nelle persone: ricevere informazioni chiare e univoche. Occorre fare da filtro, selezionando le informazioni più utili alla propria comunità, rispetto alla comunicazione ridondante e complessa proveniente da enti superiori. Selezionando, o creando appositamente, luoghi reali e/o virtuali sui quali è possibile approfondire.

Due esempi di attivazione di una modalità di comunicazione di crisi:

  1. Rispondere a tutti i commenti che arrivano sui social (anche se di solito non lo si fa), per verificare quali sono le richiesta più frequenti e per trasformare gli utenti in vettori di informazioni corrette.
  2. Realizzare una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ) sui vari canali di comunicazione o su un sito dedicato, sulla base delle sollecitazioni più comuni provenienti dai social. 

L’ilusione o la pretesa di un ruolo da giocare: fare “al capofamiglia”      

Le persone hanno bisogno di punti di riferimento, di sentirsi rassicurati. Questo però non deve far scattare la “caccia al consenso” a tutti i costi: dico quello che fa piacere sentirsi dire, evito o sminuisco quello quello che può far abbassare il mio posizionamento nei confronti degli altri. Ciò non vuol dire minimizzare il problema ma collocare sempre tutte le informazioni in un corretto contesto. Spiegare perché si sono prese alcune decisioni, a cosa servono, quali sono i rischi potenziali. E spiegarlo con tono calmo, serio, sereno non ansiogeno. Chi comunica deve rappresentare il tutore della “tenuta psicologica” di chi legge o ascolta. 

Creare empatia con voce e volto (cum grano salis).        

Il ricorso a un video può essere utile. Una voce, due occhi e un volto sono più empatici di un testo scritto. Io sono “vecchia scuola”: preferisco siano parole o immagini a parlare per me, ma nella giusta misura, anche essere in video è imortante. Importante realizzare in cui si svolgono attività “normali”. Chiedo scusa se qualcuno si offende, ma cerri video “pseudo - motivazionali” o di marketing – vendita “spinti”… proprio non li reggo. Si può valutare di fare un video in diretta, per aumentare la percezione di verità dell’operazione di comunicazione. Il senso è: non siete soli, io sono con voi, tra voi, siamo una squadra, una comunità, siamo in rapporto gli con gli altri… Perché il video sia efficace, è consigliata una inquadratura in primo piano, una durata non superiore ai 3-4 minuti, una frequenza non eccessiva (un video di aggiornamento ogni 3-4 giorni, a seconda dell’evoluzione della situazione). 

Rimandare le polemiche

Situazioni di crisi come quella in corso possono essere lette come occasioni per accaparrarsi facile consenso. Attenzione. Capitalizzare consenso screditando la controparte può essere un boomerang.  Una crisi nazionale è sovrapponibile a una guerra, la mia città può essere più interessante del mondo intero. C’è un nemico esterno, condiviso, forte e potenzialmente pericoloso. Chiunque crei polemiche surrettizie, verrà associato a un “traditore”. Anche se a breve termine non sembra, nel medio – periodo le persone disprezzano le scaramucce e i litigi in situazioni di ordinaria amministrazione. In momenti di crisi e di pericolo, le trova insopportabili e fortemente nocive. A tutto svantaggio di chi le amplifica o prova a specularci sopra. 

Comunicazione consigliate

Creazione di un canale comunicativo o di una pagina web “autorevoli” in cui ci si mette la faccia (non tanto a video, quanto a coerenza) con tutte le informazioni. Un punto di riferimento dove proporsi e dare conforto e, soprattutto, chiarezza "fuori" del caotico mondo informativo della rete. Uso dei profili social, di una chat WhatsApp o Telegram dedicata (anche attraverso la funzione broadcast, cioè messaggi unidirezionale uno-a-molti), della newsletter del sito succitato. 

Obiettivi da centrare

Non basta lo “sparare nel mucchio” di una comunicazione anonima e qausi impersonale: occorre entrare in relazione. Dopo “essersi fatti conoscere”, puntare alla raccolta di dati / iscritti. Trattandosi di un servizio di “pubblica utilità” occorre cercare di ottenere una lead generation corposa in tempi relativamente brevi e senza eccessivi sforzi economici. Attraverso messaggi broadcast mirati e DEM (messaggi di posta elettronica all’indirizzario raccolto) si cercherà di fare arrivare le comunicazioni più importanti o urgenti, coltivando l’interesse di un rapporto personale con l’utente. 

Coordinamento delle voci        

Il difetto del conflitto con altre persone, comunicatori, istituzioni: suscita nelle persone di fidarsi di una voce terza, anche se magari non verificata. Scagliarsi contro qualcuno, può anche creare consensi: ma le basi devono essere credibili ed etiche. Il contrasto per il contrasto, alla lunga disaffeziona dall’essere informati, quindi rende inutile la comunicazione. La comunicazione inoltre deve essere coordinata, univoca, collegiale. In caso contrario il buon lavoro fatto nell’informare può essere vanificato. 

Il patto di responsabilità

La coesione di una comunità comunicativa passa dall’identificazione tra i vari attori del processo comunicativo, a partire dai comportamenti quotidiani. Se esistono regole specifiche, i comunicatori devono essere i primi a rispettarle e a comunicare il fatto che le stanno rispettando. Se durante la gestione di una crisi di comunicazione si commette un errore (il che è assolutamente possibile), va ammesso. E va successivamente ripristinata l’informazione in versione corretta, questo aiuta a superare i rischi di infodemia.