costruire ponti. 1 | servono nuove parabole
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Costruire ponti
1 | servono nuove parabole
Una linea di separazione sempre più marcata: se so di cosa ho bisogno, non c’è spazio per altro.
Ognuno parte da come percepisce la realtà: senza confronto e relazioni autentiche ci può essere futuro, sviluppo, progresso?
Ciò che è “altro” da me: vale la pena di prenderlo in considerazione, di fare due passi insieme, evocando e provocando?
Gesù nel Vangelo ha spiazzato (e non poco) attraverso le parabole: nessuno aveva mai parlato così prima, nessuno si era addentrato su un ponte tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini, tra l’uomo e la verità…
E se le nuove parabole fossero musica, arte, corpo, talento, valore personale?
E se per raccontare ed avvicinare mondi diversi… il ponte fosse la leggerezza, l’unicità, la fragilità dei giovani? Non strutturati per natura, a costo di essere ingenui, ritenuti degli sprovveduti, trattati da emergenza.
Video ergo sum: quella cos irrinunciabile che è il rappresentare la realtà: dall’assoluto al racconto, dal raccontare all’incontro.
The medium
is the message
Marshall McLuhan,
1964
il mezzo stesso di comunicazione è in sé la comunicazione assumendo maggiore importanza del messaggio che si vuole trasmettere.
L’uomo è spinto a comunicare perché ha i mezzi per farlo, per questo motivo è il mezzo che assume più importanza del messaggio. Basti pensare ai social network che si riempiono quotidianamente di messaggi anche da considerare “vuoti” per alcuni, ma che vengono formulati perché l’essenza stessa del canale è la condivisione.
Attualmente, aggiornando o forse riformulando il concetto di McLuhan il mezzo di comunicazione è fondamentale perché permette la connessione sorvolando quindi – se usato in modo superficiale – il messaggio che si vuole trasmettere.
Lavoro: mezzo, strumento o il fine per vivere?
difficoltà della stragrande maggioranza dei giovani ad avvistare un qualche possibile significato tra quanto insegnato, lungo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto la voce «cristiano» e la propria ricerca di una risposta il più autenticamente vera alla drammatica e prepotente questione circa il tipo di persona che, crescendo, si desidera divenire.Nell’esperienza di quasi tutti la realtà del lavoro sembra scontrarsi con un’immagine della propria realizzazione personale.
il lavoro è importante, ma non esaurisce la realizzazione di sé: ne è certamente un elemento importante, ma non il primo. Al contrario, la società in cui viviamo, malata di narcisismo e di individualismo, spinge i giovani a credere che la propria realizzazione si giochi tutta nel lavoro.
Se però Dio mi ha dato dei doni naturali, non è perché io li realizzi? In fondo è il significato della parabola dei talenti!”. Tuttavia i talenti a cui si riferisce la parabola non corrispondono a ciò che spesso si pensa. La cultura moderna – complice anche una lettura religiosa superficiale – ha mutuato questa parola dal vangelo sottolineandone il riferimento ai “doni naturali”. In realtà i talenti di cui parla Gesù non rappresentano le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Infatti, nella parabola, si dice che l’uomo in partenza per il viaggio diede a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le sue capacità: le capacità naturali, come si vede, precedono la distribuzione dei talenti.
Valorizzazione dei propri talenti o c’è qualcosa di più?
Nei numerosi colloqui che quotidianamente svolgo con i giovani emerge sovente la centralità del problema del lavoro. Tra i ragazzi che incontro, oltre agli universitari, ci sono molti neolaureati e giovani che hanno da poco iniziato l’avventura lavorativa. Nell’esperienza di quasi tutti la realtà del lavoro sembra scontrarsi con un’immagine della propria realizzazione personale. C’è chi dice che nel lavoro non impara niente di nuovo, chi si sente costretto a fare una quantità di ore straordinarie spesso non pagate perché “i colleghi fanno così e se non mi adeguo verrò licenziato”.C’è poi un numero sempre più grande di persone che vivono con disagio il rapporto tra il lavoro ed il proprio cammino di compimento affettivo. Sorgono domande come questa: “Se mi offrono un lavoro a Parigi ed io e la mia fidanzata non possiamo mai vederci, perché dovrei rinunciare io al mio lavoro? Non potrebbe farlo lei?”. Oppure, come ha detto una ragazza in un incontro: “Il mio capo mi aveva appena nominata responsabile di un grande settore, ma purtroppo, anche se sono sposata da poco, sono rimasta incinta”.
Durante un incontro con coppie di giovani lavoratori, ricordavo loro come la vocazione nella vita consiste innanzitutto nel fatto che Gesù ci ha scelti: la vocazione è il rapporto con lui. Questo rapporto pervade tutta la realtà, ma si fa concreto attraverso una compagnia, un luogo affettivo, segno della sua preferenza per noi, che il Signore ci dona affinché possiamo riprendere coscienza quotidianamente del rapporto con Lui. Insomma, il lavoro è importante, ma non esaurisce la realizzazione di sé: ne è certamente un elemento importante, ma non il primo. Al contrario, la società in cui viviamo, malata di narcisismo e di individualismo, spinge i giovani a credere che la propria realizzazione si giochi tutta nel lavoro.
In occasione di una cena, un giovane amico ha formulato un’interessante obiezione: “Ci sono, è vero, dei rischi a fissarsi solo sul lavoro. Se però Dio mi ha dato dei doni naturali, non è perché io li realizzi? In fondo è il significato della parabola dei talenti!”. Tuttavia, i talenti a cui si riferisce la parabola non corrispondono a ciò che spesso si pensa. La cultura moderna – complice anche una lettura religiosa superficiale – ha mutuato questa parola dal vangelo sottolineandone il riferimento ai “doni naturali”. In realtà i talenti di cui parla Gesù non rappresentano le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Infatti, nella parabola, si dice che l’uomo in partenza per il viaggio diede a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le sue capacità: le capacità naturali, come si vede, precedono la distribuzione dei talenti.
Oggi tutto è complicato però dall’individualismo e da una certa cultura che potremmo definire del “talentismo”, ben rappresentata dai numerosi spettacoli televisivi in cui il soggetto si deve presentare davanti a pochi esperti dimostrando che, con molto esercizio e studio, ha sviluppato una certa capacità naturale e quindi vale qualcosa… oppure no, a seconda dell’impressione suscitata nei giudici. L’obiettivo è sentirsi dire dagli esperti: “Tu sì che vali!”.
Com’è facile per i giovani oggi cadere nell’inganno suscitato da questa mentalità! Davvero valgo qualcosa solo perché lo dicono quattro esperti? Il mio valore sta nel segno che lascerò nel mondo con una mia particolare capacità? E quando sarò vecchio, o malato, e non potrò più far valere la mia capacità? Che cosa resterà? Tutto ciò mi costringe a vivere sempre al massimo livello della mia espressione: si chiama sindrome da prestazione ed è la condizione permanente dell’ansia e della depressione. Insomma, un grande inganno.
raccontare il vissuto, essere credibili
Il giovane allontana dal mondo-chiesa per ragioni di aperto o sotterraneo dissenso rispetto a questo o quell’altro punto della dottrina o della morale cattolica; molte ragioni della disaffezione giovanile all’universo della fede vanno ricercate nella volontà tipica di chi si trova alle prese con il proprio cammino di crescita di differenziarsi dall’universo mentale e quindi religioso dei propri genitori e degli altri adulti della società.Il punto di rottura è legato alla difficoltà della stragrande maggioranza dei giovani ad avvistare un qualche possibile significato tra quanto insegnato (e preteso… senza molta credibilità), lungo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto la voce «cristiano» e la propria ricerca di una risposta il più autenticamente vera alla drammatica e prepotente questione circa il tipo di persona che, crescendo, si desidera divenire.
Insomma, il difficile rapporto dei giovani con la fede si concentra intorno al fatto per il quale tutto ciò che in Chiesa si compie per la loro maturazione non li abilita affatto a individuare una risposta convincente alla seguente domanda: ma cosa significa essere cristiani, quando si cresce, quando cioè non si è più bambini? È con questo interrogativo che la comunità credente (che non sa vivere questo… e tantomeno rispondere) è oggi chiamata a confrontarsi.
- foto: note per (di) per la Romagna,
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