giovani: costruire ponti | 2

Per me, i giovani sono il tesoro più grande. 

Ma possono esserlo solo se per noi, nella nostra vita, fanno la differenza.
Se la differenza è avvertita come distanza e separazione, tutte le diversità saranno intese come tradimenti del pensiero corretto (il nostro) davanti al quale tutto è inferiore, in contrasto, in perdita.
Magari e soltanto fuga da un qualcosa che non si vuole più accettare.
Tentare un incontro, una mediazione… trovarci a metà strada?
Quante volte certi dualismi si sono nutriti di distanze, diffidenze, percezioni sbagliate… il cielo e la terra, Dio e l’uomo, l’uomo e la donna, gli adulti e i giovani, i laici e i preti, il bianco e il nero (anzi il bianco e qualsiasi altro colore di pelle), il nord ed il sud.
Costruire ponti non può significare allora sbarcare da parte di noi adulti sulla loro riva sbagliata, vedere chi o cosa ci convince e tranquillizza di più, farlo nostro e portarlo a casa, farlo ritornare sulla sponda giuste, cioè la nostra”.
Non basta “riportarli a casa” o portare a casa almeno qualcosa: sarebbe auto-assolutorio (e troppo comodo).


  dal Vangelo secondo Matteo | 13, 44-52  

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.

Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».


Prima che chiedere preghiere, 
Dio offre tesori.
E il vangelo ne possiede la mappa.
Quell'uomo va e vende quello che ha.
Il contadino e il mercante vendono tutto,
ma per guadagnare tutto.
Non perdono niente, lo investono.
Fanno un affare.
Così sono i cristiani:
scelgono e, scegliendo bene, guadagnano.
Non sono più buoni degli altri,
ma più ricchi:
hanno un tesoro di speranze, di coraggio,
di libertà, di cuore, di Dio. 

P. Ermes Ronch

i

«Cresce in me la convinzione
di portare un tesoro d'oro
fino che
devo consegnare agli altri»
(S. Weil).




Mi ha sempre colpito in queste pagine del vangelo, l’intuizione e la scoperta da parte dei “cercatori” di qualcosa che è sotto gli occhi di tutti, ma solo per loro conta tantissimo (tanto da essere disposti a venedre tutto per averla) … per queste persone in ricerca, queste cose “fanno la differenza”.

Per me, i giovani sono il tesoro più grande. Ma possono esserlo solo se per noi, nella nostra vita, fanno la differenza.
Costruire ponti non può significare allora sbarcare sulla loro riva, vedere chi o cosa ci convince e tranquillizza di più, farlo nostro e portarlo a casa, farlo ritornare sulla sponda giuste, cioè la nostra”.


  Senza differenze che dialogo è?  


“Avere il gusto dell’altro”. Così Michel de Certeau, definiva il primo, il fondamentale passo di un cammino di umanizzazione, dove “l’altro è colui senza il quale vivere non è più vivere”. L’umanizzazione si gioca infatti nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, anche se troppo spesso ricorriamo sbrigativamente alle categorie di “noi” e “gli altri” per contrapporle, sperando così di essere agevolati nell’affrontare problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni.

Eppure sappiamo bene quanto sia arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo.
Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste e trova la propria dimensione pienamente umana in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.

Ma allora come intraprendere e percorrere cammini di dialogo e di comunicazione con l’altro, capaci di condurre gli interlocutori a un’autentica umanizzazione? Credo che innanzitutto occorra riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi una tendenza a ripudiare tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono gli unici ad aver diritto di esistenza.

C’è un relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora…
A partire da questo atteggiamento preliminare, diventa possibile mettersi in ascolto: atteggiamento arduo ma essenziale quello di ascoltare una presenza che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto non è un momento passivo della comunicazione, ma è atto creativo che instaura una confidenza quale con-fiducia tra i partner del dialogo. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale: nell’ascolto le rispettive differenze perdono la loro assolutezza e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.

Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Si tratta allora di modificare le immagini stereotipate di noi stessi e dell’altro e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti. E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con “sympátheia”, ossia con un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire fino in fondo l’altro e tuttavia tenti di “sentire-con” lui. La simpatia decide poi anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterci al posto suo, di comprenderlo dal suo interno; empatia che è manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, umanità condivisa.
Il dialogo diviene così esperienza di comprensione reciproca: ci consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri ma per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.

Questo cammino sfocia nell’assumere su di sé la responsabilità dell’altro: incontrare in verità l’altro significa porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che l’altro può fare nei miei confronti riguarda lui, ma la responsabilità verso di lui impegna radicalmente la mia persona. Ecco la vera via dell’umanizzazione, quella “responsabilità” per l’altro che, come ci ha insegnato Lévinas, è “la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività”.
È così che la vicenda dell’incontro con l’altro si fa via di umanizzazione, cammino verso un orizzonte comune, una speranza condivisa, una terra più abitabile.

Note di Pastorale Giovanile

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  La differenza cristiana  


A marzo 2018 i giovani hanno vissuto una riunione presinodale nella quale è stato elaborato un documento da offrire alle istituzioni del sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», affinché da esso si sentano ispirate nell’elaborazione dell’Instrumentum laboris, la traccia per il confronto e la discussione comune.
Un documento concepito da trecento giovani provenienti da tutto il mondo, collegati online attraverso gruppi di Facebook con altri quindicimila coetanei, non può essere pienamente rappresentativo di una realtà così plurale e complessa qual è la gioventù di molte e diversissime aree culturali nelle quali è presente la Chiesa cattolica. Resta tuttavia significativo che in questo testo si possano scorgere alcune convergenze, soprattutto sulle sfide e sulle opportunità dei giovani nel mondo di oggi. Va anche riconosciuta un’innegabile evidenza: le numerose indagini sociologiche e le diverse letture da parte di attenti osservatori del mondo giovanile non contraddicono ciò che i giovani hanno espresso in prima persona in questo confronto.
Questo documento ha il pregio di aiutare a percepire i giovani come parte della Chiesa e non come semplici interlocutori di un’istituzione a loro esterna. I giovani si sentono Chiesa, anche quando hanno consapevolezza di essere “la Chiesa che manca”, secondo la felice espressione di don Armando Matteo, e hanno la capacità di prendere la parola per richiedere al corpo di cui fanno parte un cambiamento di rotta e di stile. È significativo che si esprimano giudicando «la Chiesa come troppo severa e spesso associata a un eccessivo moralismo» e chiedendo che essa sia «accogliente e misericordiosa, […] capace di amare tutti, anche quelli che non la seguono» (1. 1).

Dunque i giovani
fanno richieste non scontate né rivoluzionarie,
ma pacate e determinate.


Ciò che tuttavia dal documento emerge come urgente per i giovani di oggi è la ricerca del senso dell’esistenza. Ricerca che si è fatta faticosa e difficile e che avviene ormai lontano dai percorsi indicati dalle religioni e soprattutto lontano da un itinerario di fede, perché proprio la fede non è stata loro trasmessa dalla generazione precedente, quella dei loro genitori. I millennials, nati negli ultimi due decenni del secolo scorso, possono anche essere definiti la “prima generazione incredula”, ma si faccia attenzione e si legga con discernimento quanto avvenuto nella generazione precedente, resasi estranea alla Chiesa soprattutto attraverso un’inedita incoerenza: si diceva cattolica ma non frequentava più abitualmente la liturgia domenicale e non sentiva l’appartenenza al cattolicesimo se non a livello culturale, in quanto erede di una cultura tradizionalmente cattolica.
Negli ultimi decenni del secolo scorso la Chiesa cattolica, in particolare quella italiana, è parsa aver smarrito lo slancio dell’aggiornamento conciliare e non si è più impegnata nella formazione e nella cura del fedele, affinché la sua fede fosse pensata, adulta e dunque emergesse la figura del cristiano maturo, corresponsabile nella comunità cristiana.

Ha preferito spendere tutte le sue energie in una logica di presenza nella società, fino a cercare di occupare spazi abitati dalla “religione civile”. Così è avvenuta una rottura della trasmissione generazionale della fede ed è emersa una figura di cattolico astenico e poco convinto che, come tale, non poteva comunicare ai figli né le esigenze evangeliche della sequela né una concreta appartenenza alla comunità cristiana.
Va anche detto che questa generazione adulta di fine millennio è stata incapace di comunicare una grammatica umana ai figli, che oggi si trovano poco abilitati al vivere quotidiano, ad assumere una responsabilità, a trovare senso. È soprattutto questa “ricerca di senso” a essere oggi in affanno, come testimoniano le indagini sociologiche e come sperimentano quanti sono in ascolto dei giovani (come i monasteri o le comunità che li accolgono abitualmente). «Chi sono veramente io? Chi voglio essere? Come diventare me stesso? Che cosa posso sperare? Che senso dare alla mia vita? Mi ritrovo davanti a un muro: come abbatterlo? O devo forse scalarlo?». Queste le domande dei giovani, a volte vissute in modo tragico, nella sensazione che non vi siano risposte se non il nulla.

Occorre ascoltare i giovani, ascoltarli nelle loro speranze e nelle loro ansie con molta pazienza, cercando soltanto di essere vicini a loro, compagni di strada, niente di più, senza avere la pretesa di suggerire o di proporre alcunché. Proprio perché queste sono le domande drammatiche che li abitano, oggi il riferimento a Dio sembra di nessun interesse, anche se questa aporia non desta alcuna confessione o militanza ateistica. Semplicemente, Dio non è più interessante e i giovani sono convinti che si possa vivere una vita felice senza di lui. E non si dica che, di conseguenza, i giovani abbandonano la Chiesa. Questa è estranea di per sé, come un mondo che non riesce più a dire nulla né attraverso la sua liturgia né attraverso le sue prediche.

Dio è una parola rifiutata ed espulsa perché è risuonata troppo, perché le sue immagini sono state percepite come false e nemiche dell’uomo, mentre la Chiesa è estranea perché — come più volte mi hanno detto i giovani — «vive in un altro mondo».
Resta però significativo che quei giovani che hanno ricevuto una qualche conoscenza di Gesù Cristo e della sua radicale umanità non sono indifferenti alla sua figura esemplare e al suo messaggio, anche se non giungono a una confessione di fede in lui.

Proprio per queste considerazioni, diventa urgente e decisivo un cambiamento nel vivere la fede cristiana: un cambiamento che riguarda innanzitutto la generazione adulta dei padri e delle madri, la generazione dei quarantenni-cinquantenni che deve essere raggiunta dal Vangelo, da quel Vangelo che non è stato loro indirizzato nel tempo della formazione cristiana. Occorre riaccendere un cristianesimo di testimonianza, in cui comportamento e stile siano veramente coerenti con il Vangelo professato. La trasmissione della fede deve cominciare nello spazio della famiglia, anche della famiglia ferita: solo se c’è convinzione salda, mite e intelligente, allora la fede si fa eloquente, parla ad altri e si fa comprendere come un tesoro per la vita. Se invece le istituzioni della Chiesa continuano a ignorare i fedeli, a lasciarli in una condizione di destinatari passivi del culto e della predicazione, se non riescono a farli partecipare con responsabilità alla vita della comunità, continuerà una fuga senza contestazioni e nel recinto dell’ovile resterà un numero sparuto di pecore.

Lasciamo perdere la retorica sui giovani e, mi permetto di dire, anche sulle donne. È controproducente caricare queste realtà di aggettivi pieni di complimenti e di immagini poetiche ma vuoti di sostanza: occorre invece un mutamento, affinché queste parti della Chiesa che stanno per mancare, o addirittura già mancano, trovino uno spazio di appartenenza e di vera fraternità e sororità vissuta in una comunità che sappia mostrare “la differenza cristiana”, in mezzo agli uomini e alle donne presenti nella storia e nella società, non contro di loro. I giovani oggi sono sempre più lontani dalla fede cristiana, ma abitano non una terra atea bensì una terra di mezzo in cui regna l’indifferenza per Dio e per la Chiesa. Questo è però un terreno aperto alla ricerca, alla vita interiore, alla spiritualità, un terreno assetato di grammatica umana.

Attraverso le loro domande, sovente mute, i giovani chiedono che sia indicato loro il senso, la chiamata/vocazione alla vita. Sì, la vocazione che vorrebbero ascoltare e discernere è la vocazione alla vita, al vivere che è la chiamata unica e irripetibile per ogni persona da parte di Dio, anche nella fede cristiana. Come tutti gli umani, anche i giovani sono chiamati a vivere in pienezza, a fare della propria vita, per quanto è possibile, un’opera d’arte consapevole: chiamati dunque alla felicità, perché la vita buona e bella sa anche dare la felicità. Nessuna visione banalmente ottimistica sul “duro mestiere di vivere”, ma se questo invito alla vita è rivolto a un giovane da chi ha fiducia e comunica fiducia, se è fatto nella piena gratuità, non per farlo entrare nella Chiesa, non per farne un discepolo, ma perché si vuole che diventi un soggetto capace di pienezza di vita, allora l’appello è veramente credibile. Solo degli anziani, degli adulti capaci di fiducia e dunque di fede sanno anche mostrare la gratuità della loro cura dei giovani e sono capaci di fare strada insieme a loro, verso la vita.

Accogliendo i giovani, nel monito presinodale Papa Francesco ha usato parole commoventi per loro, invitandoli al rischio, all’entusiasmo della fede e al gusto della ricerca. Ha chiesto loro di non temere, di non spaventarsi mai sui nuovi sentieri da percorrere. Nella domenica delle Palme ha chiesto loro di gridare perché, se non grideranno i giovani, grideranno le pietre, come aveva detto Gesù dopo il suo ingresso a Gerusalemme (cfr. Luca, 19, 40). Dunque i giovani non siano mai letti né fuori dalla Chiesa né come semplici destinatari delle parole della Chiesa, né senza i padri e le madri, senza gli anziani, perché solo tutti insieme, come un solo corpo, si cammina con fiducia e solo in comunione ci si salva.

Note di Pastorale Giovanile

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