la gioia nel Signore: il cristianesimo che non ti aspetti

Quarantacinque anni fa, il 6 agosto 1978, nasceva al cielo Papa Paolo VI.
Insieme a Giovanni XXIII i papi del Concilio.

Tante volte durante il suo pontificato veniva presentato come un uomo triste e tormentato dal dubbio, ma papa Montini sottolineava che la realtà va vista sotto dimensioni diverse.

Il 9 maggio 1975
nel cuore dell’Anno Santo
dedicato ai temi
del rinnovamento e della riconciliazione,
Paolo VI pubblica
l’esortazione apostolica
"GAUDETE IN DOMINO"
(GD)
da molti considerato
«il primo scritto ufficiale della Chiesa
tutto dedito alla gioia».


Difficile, quindi comprendere Paolo VI, la sua vita e il suo ministero, senza riferimento alla gioia.

Perché la scelta di questo tema?
Paolo VI, sempre molto attento anche a chi è lontano dalla fede, intuisce lo «strano paradosso» della coscienza contemporanea: pur desiderando la vera felicità, sperimenta allo stesso tempo l’incapacità di raggiungerla.

Due i motivi che rendono “particolarmente acuto” il paradosso:

  • In una società tecnologicamente avanzata come la nostra sembra prevalere ancora di più la “solitudine”, la “sete di amore”, il senso di una “presenza non soddisfatta” e un “vuoto mal definito”.
  • Le «miserie fisiche e morali che affliggono l’umanità, pur non essendo più profonde di quelle del passato», oggi «assumono una dimensione planetaria», in quanto «meglio conosciute» e «illustrate dai mass media»(GD): Alla luce di questi disagi Polo VI si convince della necessità di non rinunciare a parlare della gioia e di non smettere di sperare in essa.

Decisivo gli appare prestare attenzione 
una rinnovata attenzione
alla dimensione “spirituale” della gioia

«Il problema ci appare soprattutto di ordine spirituale. È l’uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto nell’assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. (…) Egli ha desacralizzato l’universo ed ora l’umanità; ha talora tagliato il legame vitale che lo univa a Dio.(…) Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa. Si, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel cuore dell’uomo che conosce la tristezza».(GD,I).

Al centro dell’attenzione di Paolo VI vi è l’uomo e il suo rapporto personale con Gesù. Invita a “contemplare” il Salvatore, mentre nella pienezza della sua umanità, con semplicità, realismo e sensibilità, fa quotidianamente esperienza delle gioie umane:

«Nella sua umanità, egli ha fatto l’esperienza delle nostre gioie.(…) Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei campi.(…) Egli esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell’uomo che scopre un tesoro nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati a nozze quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno da una vita di prodigo e quella della donna che ha appena dato alla luce il suo bambino»(GD,III).

Infine le gioie che Gesù apprezza di più sono quelle che nascono da incontri autentici e personali, nei quali i suoi interlocutori trovano un compagno di viaggio e un amico.

Luigi Taliani

Fonte | https://marchemedia.com/2018/10/24/la-gioia-cristiana-al-cuore-dellesperienza-di-paolo-vi/


Tra i grandi Messaggi di chiusura del Concilio ecumenico Vaticano II, resta perciò memorabile quello “tutto speciale” che san Paolo VI rivolge appunto ai poveri, ai malati e a tutti coloro che soffrono, sintetizzando quella che denominava la scienza cristiana della sofferenza

«O voi tutti che sentite più gravemente
il peso della croce,
voi che siete poveri e abbandonati,
voi che piangete,
voi che siete perseguitati per la giustizia,
voi di cui si tace,
voi sconosciuti del dolore,
riprendete coraggio:
voi siete i preferiti del regno di Dio,
il regno della speranza,
della felicità e della vita;
siete i fratelli del Cristo sofferente;
e con lui, se lo volete,
voi salvate il mondo!»


   GAUDETE IN DOMINO   
ESORTAZIONE APOSTOLICA
9 maggio 1975


Rallegratevi nel Signore,
perché egli è vicino
a quanti lo invocano
con cuore sincero (1).


Nel corso di questo Anno Santo già molte volte noi abbiamo esortato il Popolo di Dio a corrispondere con gioiosa prontezza alla grazia del Giubileo. Il nostro invito chiama essenzialmente, voi lo sapete, al rinnovamento interiore e alla riconciliazione nel Cristo. Ne va la salvezza degli uomini, ne va la loro felicità completa. Nel momento in cui, in tutto il mondo, i credenti si preparano a celebrare la venuta dello Spirito Santo, noi vi invitiamo ad implorare da Lui il dono della gioia. Certo, per noi stessi il ministero della riconciliazione si esercita tra numerose contraddizioni e difficoltà (2), ma esso è suscitato ed accompagnato in noi dalla gioia dello Spirito Santo. 

Così, in tutta verità noi possiamo riprendere per conto nostro, riguardo alla Chiesa universale, la confidenza dell'Apostolo Paolo alla sua comunità di Corinto: «Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. Sono molto franco con voi . . . Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (3). Sì, è per noi ugualmente una esigenza di amore l'invitarvi a condividere questa gioia sovrabbondante che è un dono dello Spirito Santo (4).

Noi abbiamo dunque sentito come la felice necessità interiore di indirizzarvi, nel corso di questo Anno di grazia, e molto opportunamente in occasione della Pentecoste, una Esortazione Apostolica il cui tema è, precisamente, la gioia cristiana, la gioia nello Spirito Santo. È come una specie di inno alla gioia divina, che noi vorremmo intonare per suscitare un'eco nel mondo intero e anzitutto nella Chiesa: che la gioia sia diffusa nei cuori con l'amore di cui essa è il frutto, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (5). Auspichiamo anche che la vostra gioia si unisca alla nostra, per la consolazione spirituale della Chiesa di Dio, e di tutti quegli uomini, che vorranno rendersi cordialmente attenti a questa celebrazione.


1 | IL BISOGNO DI GIOIA NEL CUORE DI TUTTI GLI UOMINI

Non si esalterebbe come si conviene la gioia cristiana rimanendo insensibili alla testimonianza esteriore ed interiore, che Dio creatore rende a se stesso in seno alla sua creazione: «E Dio vide che essa era cosa buona» (6). Facendo sorgere l'uomo entro un universo che è opera di potenza, di sapienza, di amore, Dio, prima ancora di manifestarsi personalmente mediante la rivelazione, dispone l'intelligenza e il cuore della sua creatura all'incontro con la gioia, nello stesso tempo che con la verità. Bisogna dunque essere attenti all'invocazione che sale dal cuore dell'uomo, dall'età dell'infanzia meravigliosa fino a quella della serena vecchiezza, come un presentimento del mistero divino.


Affacciandosi al mondo, non prova l'uomo, col desiderio naturale di comprenderlo e di prenderne possesso, quello di trovarvi il suo completamento e la sua felicità? Come ognuno sa, vi sono diversi gradi in questa «felicità». La sua espressione più nobile è la gioia, o la «felicità» in senso stretto, quando l'uomo, a livello delle facoltà superiori, trova la sua soddisfazione nel possesso di un bene conosciuto e amato (7). Così l'uomo prova la gioia quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell'incontro, nella partecipazione, nella comunione con gli altri. A maggior ragione egli conosce la gioia o la felicità spirituale quando la sua anima entra nel possesso di Dio, conosciuto e amato come il bene supremo e immutabile (8). Poeti, artisti, pensatori, ma anche uomini e donne semplicemente disponibili a una certa luce interiore, hanno potuto e possono ancora, sia nel tempo prima di Cristo, sia nel nostro tempo e fra di noi, sperimentare qualcosa della gioia di Dio.


Ma come non vedere pure che la gioia è sempre imperfetta, fragile, minacciata? Per uno strano paradosso, la coscienza stessa di ciò che costituirebbe, al di là di tutti i piaceri transitori, la vera felicità, include anche la certezza che non esiste felicità perfetta. L'esperienza della finitudine, che ogni generazione ricomincia per proprio conto, obbliga a costatare e a scandagliare lo iato immenso che sempre sussiste tra la realtà e il desiderio di infinito.
Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente acuti oggi. È il motivo del nostro messaggio. La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d'altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l'igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all'angoscia e alla disperazione, che l'apparente spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far scomparire. 

Forse ci si sente impotenti a dominare il progresso industriale, a pianificare la società in maniera umana? Forse l'avvenire appare troppo incerto, la vita umana troppo minacciata? O non si tratta, soprattutto, di solitudine, di una sete d'amore e di presenza non soddisfatta, di un vuoto mal definito? Per contro, in molte regioni, e talvolta in mezzo a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria; sono meglio conosciute, illustrate dai «mass media», non meno delle esperienze di felicità; opprimono la coscienza, senza che appaia molto spesso una soluzione umana alla loro dimensione.


Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto. Noi abbiamo profonda compassione della pena di coloro sui quali la miseria e le sofferenze di ogni genere gettano un velo di tristezza. Noi pensiamo in particolare a quelli che si trovano senza risorse, senza soccorso, senza amicizia, che vedono annientate le loro speranze umane. Essi sono più che mai presenti alla nostra preghiera, al nostro affetto. Noi non vogliamo certo che nessuno si abbatta. Cerchiamo, al contrario, i rimedi capaci di portare la luce. Ai nostri occhi, essi sono di tre ordini.


Gli uomini devono evidentemente unire i loro sforzi per procurare almeno il minimo di sollievo, di benessere, di sicurezza, di giustizia, necessari alla felicità, a numerose popolazioni che ne sono sprovviste. Una tale azione solidale è già opera di Dio; essa corrisponde al comandamento di Cristo. Essa procura già la pace, ridona la speranza, rinsalda la comunione, apre alla gioia, per colui che dona come per colui che riceve, perché vi è più gioia nel dare che nel ricevere (9). Quante volte noi vi incitammo, Fratelli e Figli carissimi a preparare con ardore una terra più abitabile e più fraterna, a realizzare senza indugio la giustizia e la carità per uno sviluppo integrale di tutti! La Costituzione conciliare Gaudium et Spes e numerosi Documenti pontifici hanno insistito su questo punto. Anche se non è questo direttamente il tema che noi qui affrontiamo, non ci si dimentichi di questo dovere primordiale dell'amore del, prossimo, senza il quale sarebbe sconveniente parlare di gioia.


Ci sarebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell'esistenza e della vita; gioia dell'amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio.


Ma il tema della presente Esortazione va ancora oltre. Perché il problema ci appare soprattutto di ordine spirituale. È l'uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto nell'assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. Esse lo opprimono quanto più gli sfugge il senso della vita; non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo destino, che sono trascendenti. Egli ha desacralizzato l'universo ed ora l'umanità; ha talora tagliato il legame vitale che lo univa a Dio. Il valore degli esseri, la speranza non sono più sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa. Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel, cuore dell'uomo che conosce la tristezza. 

Si può accennare qui alla tristezza dei non credenti, allorché lo spirito umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a Lui orientato come al proprio bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio e la certezza di avere con Lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere.


Chi non ricorda la parola di Sant'Agostino: «Tu ci hai creati per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (10)? Perciò, è col diventare maggiormente presente a Dio e con lo staccarsi dal peccato che l'uomo può veramente entrare nella gioia spirituale. Senza dubbio, «la carne e il sangue» ne sono incapaci (11). Ma la rivelazione può aprire questa prospettiva e la grazia operare questo rovesciamento. Il nostro proposito è precisamente quello di invitarvi alle sorgenti della gioia cristiana. Come lo potremmo, senza metterci tutti di fronte al piano di Dio, in ascolto della Buona Novella del suo amore?


2 | ANNUNCIO DELLA GIOIA CRISTIANA NELL'ANTICO TESTAMENTO

Per essenza, la gioia cristiana è partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato. Non appena Dio Padre comincia a manifestare nella storia il disegno della sua benevolenza, che aveva prestabilito in Cristo, per darvi compimento nella pienezza dei tempi (12), questa gioia si annuncia misteriosamente in seno al Popolo di Dio, per quanto la sua identità non sia svelata.


Così Abramo, nostro Padre, scelto in vista del compimento futuro della Promessa, e sperando contro ogni speranza, riceve, fin dalla nascita del figlio Isacco, le primizie profetiche di questa gioia (13). Essa si trova come trasfigurata attraverso una prova di morte, quando questo figlio unico gli è restituito vivo, prefigurazione della risurrezione di Colui che deve venire: il Figlio unico di Dio promesso al sacrificio redentore. Abramo esultò al pensiero di vedere il Giorno del Cristo, il Giorno della salvezza: egli «lo vide e se ne rallegrò» (14).


La gioia della salvezza si dilata e si comunica poi lungo il corso della storia profetica dell'antico Israele. Essa si mantiene e rinasce indefettibilmente attraverso tragiche prove dovute alle infedeltà colpevoli del popolo eletto e alle persecuzioni esterne che vorrebbero staccarlo dal suo Dio. Questa gioia, sempre minacciata e risorgente, è propria del popolo nato da Abramo.
Si tratta sempre di una esperienza esaltante di liberazione e di restaurazione - per lo meno annunziate - che ha per origine l'amore misericordioso di Dio verso il suo popolo prediletto, in favore del quale egli compie, per pura grazia e potenza miracolosa, le promesse dell'Alleanza.

Tale è la gioia della Pasqua mosaica, che sopravvenne come figura della liberazione escatologica che sarebbe stata realizzata da Gesù Cristo nel contesto pasquale della nuova ed eterna Alleanza. Si tratta ancora della gioia veramente attuale, cantata in varie riprese dai salmi, quella di vivere con Dio e per Dio. Si tratta infine e soprattutto della gioia gloriosa e soprannaturale, profetizzata in favore della nuova Gerusalemme, liberata dall'esilio ed amata di un amore mistico da Dio stesso.


Il senso ultimo di questo traboccare inaudito dell'amore redentore non potrà apparire che nell'ora della nuova Pasqua e del nuovo Esodo. Allora il Popolo di Dio sarà condotto, nella morte e nella risurrezione del Servo sofferente, da questo mondo al Padre, dalla Gerusalemme simbolica di quaggiù alla Gerusalemme di lassù: «Dopo essere stata derelitta, odiata, senza che alcuno passasse da te, io farò di te l'orgoglio dei secoli, la gioia di tutte le generazioni ... Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (15).


3 | LA GIOIA SECONDO IL NUOVO TESTAMENTO

Queste mirabili promesse hanno sostenuto, per secoli, e in mezzo alle prove più terribili, la speranza mistica dell'antico Israele. Ed esso le ha trasmesse alla Chiesa di Gesù Cristo, in modo che noi gli siamo debitori di alcuni dei più puri accenti del nostro canto di gioia. Tuttavia, secondo la fede e l'esperienza cristiana dello Spirito, questa pace donata da Dio che si diffonde come un torrente traboccante, quando giunge il tempo della «consolazione» (16), è unita alla venuta e alla presenza del Cristo.


Nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore. La grande gioia annunciata dall'Angelo, nella notte di Natale, è davvero per tutto il popolo (17), per quello d'Israele che attendeva allora ansiosamente un Salvatore, come per il popolo innumerevole di tutti coloro che, nella successione dei tempi, ne accoglieranno il messaggio e si sforzeranno di viverlo. Per prima, la Vergine Maria ne aveva ricevuto l'annunzio dall'angelo Gabriele e il suo Magnificat era già l'inno di esultanza di tutti gli umili. I misteri gaudiosi ci rimettono così, ogni volta che noi recitiamo il Rosario, dinanzi all'avvenimento ineffabile che è centro e culmine della storia: la venuta sulla terra dell'Emanuele, Dio con noi. Giovanni Battista, che ha la missione di additarlo all'attesa d'Israele, aveva anch'egli esultato di giubilo, alla sua presenza, nel grembo della madre (18). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni «esulta di gioia alla voce dello sposo (19).


Soffermiamoci ora a contemplare la persona di Gesù, nel corso della sua vita terrena. Nella sua umanità, egli ha fatto l'esperienza delle nostre gioie. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità. Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Egli richiama tosto lo sguardo di Dio sulla creazione all'alba della storia. 

Egli esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell'uomo che scopre un tesoro nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la gioia delle nozze, quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno da una vita di prodigo e quella della donna che ha appena dato alla luce il suo bambino. Queste gioie umane hanno tale consistenza per Gesù da essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli uomini che entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre che li accoglie. E per parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione e la sua tenerezza quando incontra fanciulli che desiderano avvicinarlo, un giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, amici che gli aprono la loro casa come Marta, Maria, Lazzaro. 

La sua felicità è soprattutto di vedere la Parola accolta, gli indemoniati liberati, una peccatrice o un pubblicano come Zaccheo convertirsi, una vedova sottrarre alla sua povertà per donare. Egli esulta anche quando costata che i piccoli hanno la rivelazione del Regno, che rimane nascosto ai dotti e ai sapienti (20). Sì, perché il Cristo «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana» (21) ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio. E senza sosta egli «ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, agli afflitti la gioia» (22). Il Vangelo di san Luca offre una particolare testimonianza di questa seminagione di allegrezza. I miracoli di Gesù, le parole di perdono sono altrettanti segni della bontà divina: la folla intera esulta per tutte le meraviglie da lui compiute (23) e rende gloria a Dio. Per il cristiano, come per Gesù, si tratta di vivere, nel rendimento di grazie al Padre, le gioie umane che il Creatore gli dona.


Ma qui è importante cogliere bene il segreto della gioia inscrutabile che dimora in Gesù, e che gli è propria. È specialmente il Vangelo di san Giovanni che ne solleva il velo, affidandoci le parole intime del Figlio di Dio fatto uomo. Se Gesù irradia una tale pace, una tale sicurezza, una tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell'amore ineffabile di cui egli sa di essere amato dal Padre. Fin dal suo battesimo sulle rive del Giordano, questo amore, presente fin dal primo istante della sua Incarnazione, è manifestato: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (24).


Questa certezza è inseparabile dalla coscienza di Gesù. È una Presenza che non lascia mai solo (25). È una conoscenza intima che lo colma: «Il Padre conosce me e io conosco il Padre» (26). È uno scambio incessante e totale: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (27). Il Padre ha rimesso al Figlio il potere di giudicare, quello di disporre della vita. È una reciproca inabitazione: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (28). A sua volta, il Figlio rende al Padre un amore senza misura: «Io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (29). Egli fa sempre ciò che piace al Padre: è il suo «cibo» (30). La sua disponibilità giunge sino al dono della sua vita d'uomo, la sua fiducia sino alla certezza di riprenderla: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (31). 

In questo senso, egli si rallegra di andare al Padre. Non si tratta per Gesù di una effimera presa di coscienza: è l'eco, nella sua coscienza umana, dell'amore che egli conosce da sempre come Dio nel seno del Padre: «Tu mi hai amato prima della creazione del mondo» (32). Vi è qui una relazione incomunicabile d'amore, che si 'identifica con la sua esistenza di Figlio, ed è il segreto della vita trinitaria: il Padre vi appare come colui che si dona al Figlio, senza riserva e senza intermissione, in un impeto di generosità gioiosa, e il Figlio come colui che si dona nello stesso modo al Padre, con uno slancio di gratitudine gioiosa, nello Spirito Santo.


Ed ecco che i discepoli, e tutti coloro che credono nel Cristo, sono chiamati a partecipare a questa gioia. Gesù vuole che essi abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia (33): «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (34).


Questa gioia di dimorare nell'amore di Dio incomincia fin da quaggiù. È quella del Regno di Dio. Ma essa è accordata su di una via scoscesa che richiede una totale fiducia nel Padre e nel Figlio, e una preferenza data al Regno. Il messaggio di Gesù promette innanzi tutto la gioia, questa gioia esigente; non si apre essa attraverso le beatitudini? «Beati, voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete» (35).


Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore dell'uomo il peccato di presunzione e manifestare al Padre, un'obbedienza integra e filiale, accetta di morire per mano di empi (36), di morire su di una croce. Ma il Padre non ha permesso che la morte lo ritenesse in suo potere. La risurrezione di Gesù è il sigillo posto dal Padre sul valore del sacrificio del suo Figlio; è la prova della fedeltà del Padre, secondo il voto formulato da Gesù prima di entrare nella sua passione: «Padre, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (37). D'ora innanzi, Gesù è per sempre vivente nella gloria del Padre, ed è per questo che i discepoli furono stabiliti in una gioia inestinguibile nel vedere il Signore, la sera di Pasqua.


Ne deriva che, quaggiù, la gioia del Regno portato a compimento non può scaturire che dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore. È il paradosso della condizione cristiana, che illumina singolarmente quello della condizione umana: né la prova né la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma esse acquistano un significato nuovo nella certezza di partecipare alla redenzione operata dal Signore, e di condividere la sua gloria. 

Per questo il cristiano, sottoposto alle difficoltà dell'esistenza comune, non è tuttavia ridotto a cercare la sua strada come a tastoni, né a vedere nella morte la fine delle proprie speranze. Come lo annunciava il profeta: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (38). L'Exultet pasquale canta un mistero realizzato al di là delle speranze profetiche: nell'annuncio gioioso della risurrezione, la pena stessa dell'uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime: Et nox illuminatio mea in deliciis meis (39).


La gioia pasquale non è solamente quella di una trasfigurazione possibile: essa è quella della nuova Presenza del Cristo Risorto, che largisce ai suoi lo Spirito Santo, affinché esso rimanga con loro. In tal modo lo Spirito Paraclito è donato alla Chiesa come principio inesauribile della sua gioia di sposa del Cristo glorificato. Egli richiama alla sua memoria, mediante il ministero di grazia e di verità esercitato dai successori degli Apostoli, l'insegnamento stesso del Signore. Egli suscita in essa la vita divina e l'apostolato, E il cristiano sa che questo Spirito non sarà mai spento nel corso della storia. La sorgente di speranza manifestata nella Pentecoste non si esaurirà.


Lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, dei quali egli è il reciproco amore vivente, è dunque comunicato d'ora innanzi al Popolo della nuova Alleanza, e ad ogni anima disponibile alla sua azione intima. Egli fa di noi la sua abitazione: dulcis hospes animae (40). Insieme con lui, il cuore dell'uomo è abitato dal Padre e dal Figlio (41). Lo Spirito Santo suscita in esso una preghiera filiale, che sgorga dal più profondo dell'anima e si esprime nella lode, nel ringraziamento, nella riparazione e nella supplica, 

Allora noi possiamo gustare la gioia propriamente spirituale, che è un frutto dello Spirito Santo (42): essa consiste nel fatto che lo spirito umano trova riposo e un'intima soddisfazione nel possesso di Dio Trinità, conosciuto mediante la fede e amato con la carità che viene da lui. Una tale gioia caratterizza, a partire di qui, tutte le virtù cristiane. Le umili gioie umane, che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta, vengono trasfigurate. Questa gioia, quaggiù, includerà sempre in qualche misura la dolorosa prova della donna nel parto, e un certo abbandono apparente, simile a quello dell'orfano: pianti e lamenti, mentre il mondo ostenterà una soddisfazione maligna. Ma la tristezza dei discepoli, che è secondo Dio e non secondo il mondo, sarà prontamente mutata in una gioia spirituale, che nessuno potrà loro togliere (43).


Tale è la legge fondamentale dell'esistenza cristiana, e massimamente della vita apostolica. Questa, poiché è animata da un amore urgente del Signore e dei fratelli, si manifesta necessariamente sotto il segno del sacrificio pasquale, e per amore va incontro alla morte, e attraverso la morte alla vita e all'amore. Donde la condizione del cristiano, e in primo luogo dell'apostolo, che deve diventare il «modello del gregge» (44) e associarsi liberamente alla passione del Redentore. Essa corrisponde così a ciò che è stato definito nel Vangelo come la legge della beatitudine cristiana, in continuità con la sorte dei profeti: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (45).


Non ci mancano purtroppo occasioni di verificare, nel nostro secolo così minacciato dall'illusione di false felicità, l'incapacità dell'uomo «naturale» a comprendere «le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito» (46). Il mondo - quello che è inetto a ricevere lo Spirito di Verità, ch'esso non vede né conosce - non scorge che un aspetto delle cose. Esso considera soltanto l'afflizione e la povertà del discepolo, quando questi dimora sempre nel più profondo di se stesso nella gioia, perché egli è in comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.


4 | LA GIOIA NEL CUORE DEI SANTI

Questa, Fratelli e Figli amatissimi, è la gioiosa speranza, attinta alle sorgenti stesse della Parola di Dio. Dopo venti secoli, questa sorgente di gioia non ha cessato di zampillare nella Chiesa, e specialmente nel cuore dei santi. È necessario che noi, ora, facciamo sentire qualche eco di tale esperienza spirituale, che, secondo la diversità dei carismi delle vocazioni particolari, illumina il mistero della gioia cristiana.


Al primo posto ecco la Vergine Maria, piena di grazia, la Madre del Salvatore. Disponibile all'annuncio venuto dall'alto, essa, la serva del Signore, la sposa dello Spirito Santo, la Madre dell'eterno Figlio, fa esplodere la sua gioia dinanzi alla cugina Elisabetta, che ne esalta la fede: «L'anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore . . . D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (47). 

Essa, meglio di ogni altra creatura, ha compreso che Dio compie azioni meravigliose: santo è il suo Nome, egli mostra la sua misericordia, egli innalza gli umili, egli è fedele alle sue promesse. Non che l'apparente corso della vita di Maria esca dalla trama ordinaria: ma essa riflette sui più piccoli segni di Dio, meditandoli nel suo cuore. Non che le sofferenze le siano state risparmiate: essa sta in piedi accanto alla croce, associata in modo eminente al sacrificio del Servo innocente, Lei ch'è madre dei dolori.


Ma essa è anche aperta senza alcun limite alla gioia della Risurrezione; ed essa è anche elevata, corpo e anima, alla gloria del Cielo. Prima creatura redenta, Immacolata fin dalla concezione, dimora incomparabile dello Spirito, abitacolo purissimo del Redentore degli uomini, essa è al tempo stesso la Figlia prediletta di Dio e, nel Cristo, la Madre universale. Essa è il tipo perfetto della Chiesa terrena e glorificata. Quale mirabile risonanza acquistano, nella sua esistenza singolare di Vergine d'Israele, le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia, come uno sposo che si cinge di diadema e come una sposa che si adorna di gioielli» (48).Vicina al Cristo, essa ricapitola in sé tutte le gioie, essa vive la gioia perfetta promessa alla Chiesa: Mater piena sanctae laetitiae; e giustamente i suoi figli qui in terra, volgendosi verso colei che è madre della speranza e madre della grazia, la invocano come la causa della loro gioia: Causa nostrae laetitiae.


Dopo Maria, noi incontriamo l'espressione della gioia più pura, più ardente, là dove la Croce di Gesù viene abbracciata con l'amore più fedele: presso i martiri, ai quali lo Spirito Santo ispira, al culmine stesso della prova, un'attesa appassionata della venuta dello Sposo. Santo Stefano, che muore vedendo il cielo aperto, non è che il primo di questi testimoni innumerevoli del Cristo. Quanti ve ne sono, ancora ai nostri giorni e in vari Paesi, che, rischiando tutto per il Cristo, potrebbero affermare come il martire Sant'Ignazio di Antiochia: «Vi scrivo mentre sono ancora vivo, ma desidero di morire. Il mio desiderio terreno è stato crocifisso, e in me non c'è più fuoco alcuno per amare la materia, ma in me c'è un'acqua viva che mormora e dice nel mio intimo: "Vieni al Padre"» (49).


In realtà, la forza della Chiesa, la certezza della sua vittoria, la sua allegrezza quando si celebra il combattimento dei martiri, provengono dal fatto ch'essa contempla in loro la fecondità gloriosa della Croce. Per questo motivo il nostro Predecessore san Leone Magno, esaltando da questa cattedra romana il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, esclama: «È preziosa davanti allo sguardo di Dio la morte dei suoi santi, e nessuna specie di efferatezza può distruggere una religione fondata sul mistero della Croce di Cristo. La Chiesa non diminuisce, bensì cresce con le persecuzioni; e il campo del Signore si riveste incessantemente d'una messe più ricca quando i grani di frumento, caduti singolarmente, rinascono moltiplicati» (50).


Nella casa del Padre, peraltro, vi sono molte dimore, e, per coloro cui lo Spirito Santo consuma il cuore, vi sono diverse maniere di morire a se stessi e di accedere alla gioia santa della risurrezione. L'effusione del sangue non è l'unica via. Ma la lotta per il Regno include necessariamente il passaggio attraverso una passione d'amore; i maestri di spirito ne hanno parlato egregiamente. E, qui, le loro esperienze interiori s'incontrano, pur nella diversità delle tradizioni mistiche, in Oriente come in Occidente. Queste attestano un medesimo itinerario dell'anima, per crucem ad lucem, e da questo mondo al Padre, nel soffio vivificante dello Spirito.

Ciascuno di questi maestri di spirito ci ha lasciato un messaggio sulla gioia. I Padri orientali abbondano di testimonianze su questa gioia nello Spirito Santo. Origene, ad esempio, ha descritto spesso la gioia di colui che entra nella conoscenza intima di Gesù: l'anima è allora inondata di allegrezza come quella del vecchio Simeone. Nel tempio che è la Chiesa, egli stringe Gesù fra le braccia. Egli gode pienamente della salvezza tenendo fra le mani colui nel quale Dio riconcilia a sé il mondo (51). Nel Medioevo, fra molti altri, un maestro spirituale d'Oriente, Nicola Cabasilas, Vuol dimostrare come l'amore di Dio per lui procuri il massimo della gjoia (52). In Occidente, basti citare qualche nome fra quelli che hanno fatto scuola sul cammino della santità e della gioia: sant'Agostino, san Bernardo, san Domenico, Sant'Ignazio di Loyola, san Giovanni della Croce, santa Teresa d'Avila, san Francesco di Sales, san Giovanni Bosco.


Ma noi vogliamo ricordare in modo più marcato tre figure, che ancora oggi attirano moltissimo l'insieme del popolo cristiano. E anzitutto il Poverello d'Assisi, sulle cui tracce si sforzano di mettersi numerosi pellegrini dell'Anno Santo. Avendo abbandonato tutto per il Signore, egli, grazie a madonna povertà, ricupera qualcosa, si può dire, della beatitudine primordiale, quando il mondo uscì, intatto, dalle mani del Creatore. 

Nella spogliazione estrema, ormai quasi cieco, egli poté cantare l'indimenticabile Cantico delle creature, la lode di frate sole, della natura intera, divenuta per lui come trasparente, specchio immacolato della gloria divina, e perfino la gioia davanti alla venuta di «sora nostra morte corporale»: «Beati quilli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati». In tempi più vicini a noi, santa Teresa di Lisieux ci mostra la via coraggiosa dell'abbandono nelle mani di Dio, al quale essa affida la propria piccolezza. Ma non per questo essa ignora il sentimento dell'assenza di Dio, cosa di cui il nostro secolo, a suo modo, fa la dura esperienza: «Talvolta all'uccellino (a cui essa si paragona) sembra di credere che non esista altra cosa all'infuori delle nuvole che l'avvolgono . . . È quello il momento della gioia perfetta per il povero debole esserino . . . Che gioia per lui restarsene là malgrado tutto, fissare la luce invisibile che si nasconde alla sua fede» (53).


Infine come non ricordare, immagine luminosa per la nostra generazione, l'esempio del beato Massimiliano Kolbe, genuino discepolo di san Francesco? Durante le prove più tragiche, che insanguinarono la nostra epoca, egli si offrì spontaneamente alla morte per salvare un fratello sconosciuto; e i testimoni ci riferiscono che il luogo di sofferenze, ch'era di solito come un'immagine dell'inferno, fu in qualche modo cambiato, per i suoi infelici compagni come per lui stesso, nell'anticamera della vita eterna dalla sua pace interiore, dalla sua serenità e dalla sua gioia.


Nella vita dei figli della Chiesa, questa partecipazione alla gioia del Signore non si può dissociare dalla celebrazione del mistero eucaristico, ov'essi sono nutriti e dissetati dal suo Corpo e dal suo Sangue. Di fatto, in tal modo sostenuti, come dei viandanti sulla strada dell'eternità, essi già ricevono sacramentalmente le primizie della gioia escatologica.


Collocata in una prospettiva simile, la gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire «diffusiva di sé», proprio come la vita e l'amore, di cui essa è un sintomo felice. Essa risulta da una comunione umano-divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé, Essa dà al cuore un'apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la nostalgia dei beni eterni. Nei fervorosi, essa approfondisce la consapevolezza della loro condizione di esiliati, ma li salva altresì dalla tentazione di disertare il proprio posto di combattimento per l'avvento del Regno. 

Essa fa loro attivamente affrettare il passo verso la consumazione celeste delle Nozze dell'Agnello. Essa è in serena tensione tra l'istante della fatica terrena e la pace della Dimora eterna, conforme alla legge di gravità propria dello Spirito: «Se dunque, già fin d'ora, noi gridiamo "Abba, Padre!" perché abbiamo ricevuto questi pegni (dello Spirito di figli), che cosa sarà mai, quando, risuscitati, noi lo vedremo a faccia a faccia? Quando tutte le membra, a ondate riversantisi, faranno sgorgare un inno di esultanza, glorificando Colui che le avrà risuscitate dai morti e gratificate dell'eterna vita? Di fatto, se semplici pegni, avvolgono in se stessi l'uomo da tutte le parti, Io fanno esclamare: "Abba, Padre!", che cosa non farà mai la grazia completa dello Spirito, quando sarà data definitivamente da Dio agli uomini? Essa ci renderà simili a lui e compirà la volontà del Padre, perché renderà l'uomo a immagine e somiglianza di Dio» (54). Fin da quaggiù, i santi ci danno un pregustamento di questa somiglianza.


5 | UNA GIOIA PER TUTTO IL POPOLO

Ascoltando questa voce molteplice e unisona dei santi, avremmo forse dimenticato la presente condizione della società umana, in apparenza tanto poco interessata ai beni soprannaturali? Avremmo forse sopravvalutato le aspirazioni spirituali dei cristiani del nostro tempo? Avremmo forse riservato la nostra esortazione unicamente ad un piccolo numero di dotti e di sapienti? Non possiamo ignorare che il Vangelo è stato annunziato prima di tutto ai poveri e agli umili, nello splendore della sua semplicità e nella pienezza del suo contenuto.


Nel rievocare questo luminoso orizzonte della gioia cristiana, non abbiamo dunque certamente pensato che esso potesse scoraggiare qualcuno di voi, Fratelli e Figli amatissimi, che sentite il vostro cuore combattuto quando la chiamata di Dio vi raggiunge. Al contrario, noi sentiamo che la nostra gioia, al pari della vostra, sarà completa solo se ci rivolgeremo insieme, con piena fiducia, verso «Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo» (55).


L'invito rivolto da Dio Padre a partecipare pienamente alla gioia di Abramo, alla festa eterna delle Nozze dell'Agnello, è una convocazione universale. Ogni uomo, purché si renda attento e disponibile, può percepirla nell'intimo del proprio cuore, in modo del tutto particolare in questo Anno Santo, in cui la Chiesa apre a tutti più largamente i tesori della misericordia di Dio. «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (56).


Noi non potremmo pensare al Popolo di Dio in maniera astratta. Il nostro sguardo si rivolge innanzitutto al mondo dei bambini. Finché trovano nell'amore di chi è loro vicino la sicurezza di cui hanno bisogno, essi hanno anche la capacità di assimilazione, di stupore, di fiducia, di spontaneità nel donarsi. Essi sono idonei alla gioia evangelica. Chi vuole entrare nel Regno, ci dice Gesù, deve innanzitutto guardare a loro (57).


E ancora, noi raggiungiamo col pensiero tutti coloro che ricoprono piena responsabilità familiare, professionale, sociale. Il peso dei loro compiti, in un mondo estremamente instabile, toglie loro troppo spesso la possibilità di gustare le gioie quotidiane. Ma ciononostante esse esistono, e lo Spirito Santo vuole aiutarli a riscoprirle, a purificarle, a condividerle.


Noi pensiamo al mondo dei sofferenti, a tutti coloro che stanno volgendo al termine della vita. La gioia di Dio bussa alla porta delle loro sofferenze fisiche e morali, non certamente per deriderli, ma per compiervi la sua paradossale opera di trasfigurazione.


Il nostro spirito e il nostro cuore si rivolgono anche verso coloro che vivono al di là della sfera visibile del Popolo di Dio. Conformando la loro vita ai richiami più profondi della propria coscienza, che è l'eco della voce di Dio, anch'essi sono sulla via della gioia.
Ma il Popolo di Dio non può avanzare senza guide. Sono i pastori, i teologi, i maestri di spirito, i sacerdoti e quanti con essi collaborano all'animazione delle comunità cristiane. La loro missione è di aiutare i fratelli ad incamminarsi sui sentieri della gioia evangelica, in mezzo alle realtà di cui è costituita la loro vita e dalle quali non potrebbero evadere.


Sì, l'immenso amore di Dio chiama coloro che provengono dai diversi punti dell'orizzonte a confluire verso la Città celeste, sia che si trovino - in questo Anno Santo - vicini o ancora lontani. E dato che tutti questi convocati - cioè tutti noi - restiamo in qualche misura peccatori, occorre che cessiamo di indurire il nostro cuore, per ascoltare la voce del Signore e accogliere la proposta del grande perdono, così come l'annunciava il profeta Geremia: «Li purificherò da tutta l'iniquità con cui hanno peccato contro di me e perdonerò tutte le iniquità che hanno commesso verso di me e per cui si sono ribellati contro di me. Ciò sarà per me titolo di gioia, di lode e di gloria tra tutti i popoli della terra» (58).


E poiché questa promessa di perdono, e tante altre, ricevono il loro significato definitivo nel sacrificio redentore di Gesù, Servo sofferente, soltanto Lui può dirci, in questo momento cruciale della vita dell'umanità: «Convertitevi e credete al Vangelo» (59). Il Signore vuol soprattutto farci comprendere che la conversione richiesta non è assolutamente un passo indietro, come avviene invece col peccato. Viceversa, la conversione è mettersi sulla giusta strada, progredire nella vera libertà e nella gioia. È risposta ad un invito che proviene da lui, amoroso, rispettoso e pressante nello stesso tempo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (60).


Infatti, vi è forse un peso più opprimente del peccato? Un'angoscia più desolata di quella del prodigo, descritta dall'evangelista san Luca? Al contrario, quale incontro più sconvolgente di quello tra il Padre, paziente e misericordioso, e il figlio tornato sui suoi passi? «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (61). Ma chi è senza peccato, al di fuori di Cristo e della sua Madre Immacolata? Perciò l'Anno Santo - promessa di giubilo per tutto il Popolo - col suo invito a tornare al Padre nel pentimento è anche un richiamo a riscoprire il significato e la pratica del sacramento della Riconciliazione. Sulla scia della migliore tradizione spirituale, noi ricordiamo ai fedeli e ai loro pastori che l'accusa delle colpe gravi è necessaria, e che la confessione frequente resta una sorgente privilegiata di santità, di pace e di gioia.


6 | LA GIOIA E LA SPERANZA NEL CUORE DEI GIOVANI

Senza nulla togliere al calore con cui il nostro messaggio si indirizza a tutto il Popolo di Dio, vogliamo soffermarci qualche tempo per rivolgerci più ampiamente, e con una particolare speranza, al mondo dei giovani.


Se infatti la Chiesa, rigenerata dallo Spirito Santo, è in un certo senso la vera giovinezza del mondo - in quanto resta fedele alla propria realtà e alla propria missione - potrebbe forse non riconoscersi spontaneamente, di preferenza, in quanti si sentono portatori di vita e di speranza, e impegnati ad assicurare il domani della storia presente? E, reciprocamente, coloro che in ogni periodo di questa storia percepiscono in se stessi più intensamente lo slancio della vita, l'attesa dell'avvenire, l'esigenza degli autentici rinnovamenti, potrebbero forse non essere intimamente in armonia con una Chiesa animata dallo Spirito di Cristo? Come potrebbero non aspettarsi da essa la trasmissione del suo segreto di permanente giovinezza, e quindi la gioia della loro propria giovinezza?


Noi riteniamo che una tale corrispondenza esista di diritto e di fatto; non sempre visibilmente, ma certo in profondità, nonostante i molti ostacoli contingenti. Perciò, in questa Esortazione sulla gioia cristiana, la ragione e il cuore ci invitano a rivolgerci decisamente ai giovani del nostro tempo. Lo facciamo nel nome di Cristo e della sua Chiesa, che egli stesso vuole, malgrado le umane debolezze, «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (62).


Nel fare questo, non cediamo ad un ossequio sentimentale. Considerata dal solo punto di vista dell'età, la giovinezza è un fatto effimero. L'esaltazione che se ne fa diventa presto nostalgica o derisoria. Ma non è la stessa cosa per quanto riguarda il senso spirituale di questo momento di grazia, che è la giovinezza vissuta autenticamente. Ciò che attira la nostra attenzione è essenzialmente la corrispondenza - transitoria e minacciata, certamente, ma tuttavia significativa e ricca di generose promesse - tra lo slancio di un essere che naturalmente si apre ai richiami e alle esigenze del suo alto destino umano, e il dinamismo dello Spirito Santo, dal quale la Chiesa riceve inesauribilmente la propria giovinezza, il dono della sostanziale fedeltà a se stessa e, in questa fedeltà, la propria vitale creatività. 

Dall'incontro fra l'essere umano che possiede - per alcuni anni decisivi - la disponibilità della giovinezza, e la Chiesa nella sua permanente giovinezza spirituale, sgorga necessariamente, da una parte e dall'altra, un'intensissima gioia e una promessa di fecondità. La Chiesa, come Popolo di Dio pellegrinante verso il regno futuro, deve potersi perpetuare, e quindi rinnovare attraverso le generazioni umane: è una condizione di fecondità, e semplicemente di vita. 

È dunque importante che, in ogni momento della sua storia, la generazione che sorge appaghi, in qualche modo, la speranza delle generazioni precedenti, la speranza stessa della Chiesa, che è quella di trasmettere senza fine il dono di Dio, Verità e Vita. Per questo, in ogni generazione, i giovani cristiani devono ratificare, in piena coscienza e incondizionatamente, la alleanza da essi stipulata nel sacramento del Battesimo e consolidata nel sacramento della Confermazione.


A questo proposito, la nostra epoca di profonde trasformazioni non è priva di gravi difficoltà per la Chiesa. Ne abbiamo una consapevolezza molto chiara, noi che portiamo, con tutto il Collegio episcopale, «la preoccupazione per tutte le Chiese» (63), e la sollecitudine per il loro futuro avvenire. Ma, nello stesso tempo, noi rileviamo nella fede e nella speranza che non delude (64), che la grazia non mancherà al Popolo cristiano. E noi auguriamo che questo non manchi alla grazia e non rinunci - come alcuni oggi sono tentati di fare - all'eredità di verità e di santità, pervenuta fino a questo momento decisivo della sua storia secolare. 

Noi riteniamo di possedere tutte le ragioni di confidare - poiché proprio di questo si tratta - nella gioventù cristiana: essa non verrà meno alla Chiesa se, nella Chiesa, vi saranno abbastanza persone mature, capaci di comprenderla, di amarla, di guidarla e di aprirle un avvenire, trasmettendole in tutta fedeltà la Verità che rimane. Allora nuovi operai, risoluti e ferventi, entreranno a loro volta per il lavoro spirituale e apostolico, nei campi che già biondeggiano per la mietitura. Allora chi semina e chi miete condivideranno la medesima gioia del Regno (65).


Ci sembra infatti che la presente crisi del mondo, caratterizzata per molti giovani da una grande confusione, denunci da una parte l'aspetto senile - del tutto anacronistico - di una civiltà commerciale, edonistica, materialistica, che tenta ancora di spacciarsi come portatrice d'avvenire. Contro questa illusione, la reazione istintiva di numerosi giovani, pur nei suoi eccessi, esprime un valore reale. 

Questa generazione è in attesa di qualche altra cosa. Privata repentinamente di tradizioni protettive, e poi amaramente disillusa dalla vanità e dal vuoto spirituale delle false novità, delle ideologie atee, di certi misticismi deleteri, non sta forse per scoprire o per ritrovare la novità sicura e inalterabile del mistero divino rivelato in Gesù Cristo? Non ha forse egli - secondo la bella espressione di Sant'Ireneo - «disvelato ogni novità venendo nella sua persona»? (66)




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